Blue Prince, alla ricerca della 46ª stanza nella villa che cambia forma | Recensione

Ci sono giochi che intrattengono. Giochi che sono così difficili da diventare una sfida personale. E poi ci sono giochi come Blue Prince, che si infilano sotto pelle, si accoccolano tra i pensieri notturni e ti ritrovi, senza volerlo, a disegnare planimetrie immaginarie su un tovagliolo durante il pranzo. Il puzzle game di Dogubomb è uno di quei labirinti mentali e architettonici che non chiede soltanto di risolvere enigmi, ma di fidarsi del proprio intuito, della memoria, e, più di tutto, della propria curiosità.

La premessa potrebbe sembrare il punto di partenza di una fiaba gotica per ragazzi: Simon, un adolescente qualunque, riceve in eredità una villa appartenuta a uno zio eccentrico e geniale. Ma per poterla reclamare deve raggiungere la mitica 46ª stanza, nascosta tra corridoi mobili e geometrie mutevoli. Potrebbe sembrare semplice ma non lo è. Ogni porta è una scelta, ogni passo un punto speso, ogni stanza un’incognita e Blue Prince non è quel tipo di di gioco che vi tiene per mano, ma neanche vi abbandona: sfida il giocatore con eleganza, lasciando che sia lui a decidere quanto scavare sotto la superficie.

Il cuore pulsante del gioco è il suo sistema di “draft”, un’idea tanto semplice quanto geniale: ogni volta che varchi una soglia, ti vengono offerte tre possibili stanze da posizionare davanti a te. Un meccanismo che richiama i deckbuilder, ma senza l’ansia da carte e combo. Il risultato è un’esplorazione che non è mai identica, dove le mappe si costruiscono col tempo e la strategia nasce dall’esperienza, più che dal caso. Alcune stanze sono benevole, altre trappole camuffate. Le camere da letto regalano passi bonus, i negozietti gialli vendono strumenti utili (se si ha raccolto abbastanza monete), mentre i famigerati saloni rossi mettono i bastoni tra le ruote con malus decisamente spiacevoli. C’è una sottile soddisfazione nel decifrare questi codici cromatici e nel pianificare il proprio percorso come se si stesse giocando una partita a Carcassonne con l’inconscio.

Blue Prince non si limita a stanze da collegare perché ogni ambiente può contenere un enigma a sé: casseforti da aprire, meccanismi da decifrare, combinazioni logiche o visuali da intuire. Ma i veri colpi di genio emergono nei momenti meno prevedibili: quando ci si accorgi che un oggetto visto ore prima era una chiave, o quando si scopre che una lettera dimenticata in biblioteca contiene una risposta a una domanda che non sapevi di doverti porre. C’è un gusto tutto particolare nel risolvere misteri senza che nessuno vi dica di farlo. Ed è proprio qui che il gioco si avvicina a mostri sacri come Return of the Obra Dinn o Outer Wilds: non offre puzzle da risolvere, ma indizi. Tocca a al giocatore trasformarli in soluzioni.

Se c’è un elemento che può far storcere il naso, è la componente aleatoria del draft. Per quanto si possano accumulare potenziamenti e strumenti per mitigare il caso, a volte servirà disperatamente una stanza che gira a sinistra… e il gioco offrirà solo corridoi che puntano dritti contro un muro. Sono momenti abbastanza frustranti, è vero, ma anche piuttosto rari. E comunque, anche nei tentativi falliti, si scopre sempre qualcosa di nuovo: un documento, un indizio, una stanza mai vista.

A rendere Blue Prince più di un semplice puzzle game è la cura con cui la narrazione si intreccia al gameplay. La storia dello zio, della famiglia, della villa e persino del paese che la ospita non è mai raccontata in modo diretto, ma è disseminata tra le righe di un diario, nei documenti dimenticati, nei quadri appesi ai muri. E, sorprendentemente, ogni frammento narrativo non è solo “lore”, ma spesso è utile per superare un enigma o per capire una meccanica. È raro che un puzzle game riesca a costruire un’identità narrativa così solida senza forzature. Ed è ancora più raro che riesca a farlo restando, nel cuore, un gioco. Non un romanzo travestito da videogioco, ma un’esperienza ludica pura, stratificata, fatta per chi ama perdersi nel processo, più che nel risultato.

Blue Prince è uno di quei titoli che, una volta finiti, non vi lasciano andare. Non solo per la quantità di segreti ancora da svelare, ma perché cambia la lente con cui si guardano gli altri giochi, e forse anche un po’ il mondo. È la dimostrazione che si può creare qualcosa di fresco partendo da elementi familiari. Che l’originalità non sta nel reinventare, ma nel ricombinare.

Se The Witness, Portal e Myst formano il pantheon dei puzzle in prima persona, Blue Prince ha già inciso il proprio nome su una nuova colonna. Quella dell’immaginazione guidata. Del mistero che si svela solo a chi ha voglia di guardare davvero. E, soprattutto, di quel tipo di design che non tiene per mano, ma sorride complice da dietro la porta numero quarantasei.


Clicca qui per seguire eSports247.it su Google News

Leave a Comment