I videogiochi fanno bene al cervello? La scienza dice di sì (e Nintendo l’aveva capito molto prima)

Videogiochi e creatività aiutano il cervello a restare giovane: una nuova ricerca conferma ciò che Nintendo e Kawashima sostenevano da anni.

Spesso s’è accusato – e a volte si continua ad accusare – i videogiochi di qualunque cosa: della violenza nelle scuole (ricordate i primi anni Duemila, quando ogni strage negli Stati Uniti veniva collegata ai videogame?), della presunta stupidità dei giovani, che tanto “sono stupidi comunque, no?”, e perfino delle mancate qualificazioni ai Mondiali, perché in teoria passerebbero più tempo su FIFA che sul campo vero. È un copione che si ripete da decenni, senza mai fare troppo lo sforzo di capire davvero cosa succede dall’altra parte dello schermo.

E invece, ogni volta che arriva uno studio serio, il quadro si ribalta: la ricerca scientifica finisce sempre per raccontare una storia molto diversa da quella che si legge nei commenti indignati sotto i post Facebook (quella, sì, piattaforma troppo spesso inebetente).

L’ultima conferma arriva da una ricerca internazionale che utilizza un campione enorme – più di 1.400 persone – e che ha coinvolto creativi di ogni tipo: musicisti, ballerini di tango, artisti visivi, studenti, principianti. Tutti accomunati da una cosa soltanto: l’impegno costante in attività creative, videogiochi compresi. Ed è proprio qui che l’indagine diventa interessante per chiunque abbia un minimo di familiarità con il mondo del gaming.

Gli studiosi del Trinity College di Dublino hanno osservato che chi coltiva attività creative mostra un cervello più “giovane” dal punto di vista biologico. Non una metafora: parliamo di marcatori neurobiologici misurabili. Il risultato è talmente chiaro che il co-autore dello studio, Agustin Ibanez, arriva a definire la creatività “un determinante di salute cerebrale comparabile a dieta ed esercizio fisico”. In altre parole: quello che fai con la testa conta quanto quello che fai col corpo.

I videogiochi come allenamento cognitivo, non semplice intrattenimento

Dentro questo mosaico c’è anche il gaming. Non come passatempo leggero, ma come pratica strutturata. È curioso notare come la ricerca confermi qualcosa che Nintendo e il dottor Ryuta Kawashima ripetono da anni: l’allenamento cerebrale funziona davvero. E non solo come slogan.

In uno studio parallelo condotto su un gruppo di over 65 per dieci settimane, l’uso quotidiano di videogiochi pensati per stimolare memoria, concentrazione e rapidità mentale ha prodotto un aumento del 2,3% nei livelli di acetilcolina, un neurotrasmettitore fondamentale per apprendimento e attenzione.

A prima vista può sembrare poca cosa, ma basta ricordare un dettaglio: la scienza stima che, ogni dieci anni, i livelli di acetilcolina si riducano del 2,5%. Significa che quei videogiochi – gli stessi che una volta venivano descritti come “scemenze da DS” – hanno sostanzialmente compensato un decennio di invecchiamento cognitivo. Non è una promessa pubblicitaria, è un dato misurato.

Naturalmente, non tutti i giochi funzionano allo stesso modo. I puzzle game da cellulare possono intrattenere, certo, ma non sono progettati per produrre un effetto misurabile sui circuiti cognitivi. Il brain training, invece, nasce con un’intenzione precisa: stimolare in modo mirato determinate funzioni del cervello. Non è un caso che Kawashima, neuroscienziato prima ancora che testimonial Nintendo, abbia dedicato la sua carriera allo studio dell’età cerebrale e della prevenzione della demenza. E che il suo lavoro, tradotto in forma videoludica, sia ancora oggi uno degli esempi più riusciti di incontro tra scienza e game design.

Questo non significa che i videogiochi siano la soluzione a tutti i mali – il solito errore di chi pretende risposte semplici in un mondo complesso; significa, piuttosto, che il gaming è ormai parte integrante del discorso sulla salute cognitiva. Non solo hobby, ma attività capace di produrre benefici tangibili quando affrontata con regolarità e metodo.

Il punto, forse, è proprio questo: il videogioco è diventato adulto mentre molti dei discorsi che lo riguardano sono rimasti fermi agli anni Novanta / ai primi dei Duemila. La ricerca che oggi fa notizia non parla a noi giocatori – che conosciamo da sempre il valore di certe esperienze – ma a chi ha passato due decenni a ripetere luoghi comuni. Se poi a dimostrarlo sono numeri, laboratori, analisi del cervello e non “i soliti gamer”, tanto meglio.

In fondo, ogni generazione ha il suo modo di mantenersi lucida. C’è chi faceva parole crociate, chi sudoku, chi smontava radio per vedere cosa c’era dentro. Noi avevamo Brain Training. E forse non era solo un gioco.

Chi è il dottor Ryuta Kawashima

Neurologo giapponese e ricercatore dell’Università di Tōhoku, Ryuta Kawashima ha dedicato la sua carriera allo
studio dell’invecchiamento cerebrale e dei processi cognitivi legati alla memoria, all’attenzione e alla
concentrazione. Le sue ricerche, basate su imaging cerebrale e analisi delle funzioni esecutive, hanno ispirato
Nintendo nella creazione della serie Brain Training, diventata un fenomeno globale.

Kawashima ha sempre sostenuto che brevi sessioni quotidiane di stimolazione mentale possano contribuire a
mantenere giovane il cervello con l’avanzare dell’età. Questa nuova ondata di studi internazionali sembra
confermare, con dati ancora più solidi, ciò che lui sostiene da oltre vent’anni.


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