Di tutte le epoche storiche che Assassin’s Creed ha attraversato (dalla Firenze rinascimentale alla Londra vittoriana) è quasi incredibile che ci siano voluti vent’anni per approdare finalmente dove tutti i fan speravano: il Giappone feudale. E Shadows non è solo una cartolina pittoresca piena di pagode e sakura, ma un capitolo che, con tutti i suoi limiti, prova davvero a respirare come i grandi classici del genere samurai: a metà tra l’onore e il rimorso.
Ubisoft Quebec ha scelto di raccontare questa nuova avventura attraverso due volti, due stili e due filosofie di guerra: Naoe, l’ombra sopravvissuta dell’Iga clan, e Yasuke, il guerriero africano realmente esistito al servizio di Nobunaga. Due personaggi che, presi singolarmente, non rivoluzionano l’universo narrativo della saga ma che insieme, in qualche modo, funzionano.
La prima vera vittoria di Shadows sta nell’aver trovato un equilibrio tra esplorazione libera e narrazione guidata. Le missioni non ti esplodono in faccia come una supernova di icone ma al contrario la mappa è molto più sobria rispetto al passato, quasi timida. Ci si ritrova a cavalcare tra colline e risaie senza una freccia lampeggiante che urla cosa fare, w questa sensazione (quella del “mi sto perdendo nel modo giusto”) era da tempo che mancava. Certo, si è perso qualcosa nel passaggio: un po’ del fascino della scoperta emergente se n’è andato, perché il tabellone delle missioni, mutuato da Mirage, ti informa in anticipo su chi è buono, chi è cattivo e chi finirà trafitto. Ma funziona, perché ora è il come risolvi i problemi, più del cosa, a fare la differenza.
La trama affonda mani e piedi nei cliché più riconoscibili del genere jidaigeki. Samurai erranti, feudatari corrotti, onore da riscattare, sangue da lavare. Ma c’è mestiere nella scrittura. Non urla mai al capolavoro, ma neanche inciampa nella noia. Gli archi narrativi si chiudono con eleganza, e le connessioni tra un villaggio e l’altro si mantengono vive, evitando l’effetto “quello che succede a Kyoto resta a Kyoto”. Non mancano momenti di silenzio teso, di riflessione in notturna, in cui anche Yasuke (gigante di poche parole) sembra sentire il peso dei propri passi. È qui che Shadows riesce a fare qualcosa di raro: non solo raccontare una vendetta, ma farci percepire cosa significa essere un assassino in un mondo dove ogni gesto ha un’eco morale.
E qui arriva forse l’unico vero dislivello del gioco. Per quanto Yasuke sia una forza della natura (le sue entrate nei campi di battaglia sembrano uscite da un manga seinen), gran parte del gameplay premia Naoe. Lei può arrampicarsi, infiltrarsi, dileguarsi. Lui può solo combattere a viso aperto. Ma in un gioco che ancora fonda la sua anima sullo stealth e sulla verticalità, la scelta diventa quasi obbligata. Non è sbilanciato al punto da rompere l’esperienza, ma il dualismo avrebbe potuto essere gestito con più coraggio.
Dove Shadows riesce a fare il grande balzo, però, è nella rappresentazione del mondo. Ogni stagione è un’emozione visiva. La pioggia che scroscia sui tetti, le foglie rosse che danzano sotto i colpi di vento, la neve che ovatta il suono dei passi: tutto sembra vivo, in movimento, reattivo. Persino gli animali rispondono ai cambiamenti climatici.
Assassin’s Creed Shadows non è la rivoluzione della serie, siamo onesti. Ma è la conferma che, anche dopo anni di alti e bassi, questa saga ha ancora qualcosa da dire e, quando lo fa nel modo giusto, sa sempre come stupire.
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